Dopo una lunga sessione di valutazioni, Bruxelles ha comminato ad Apple una maxi sanzione da 13 miliardi di euro per l’accordo fiscale non legittimo, siglato con l’Irlanda: una sanzione che punta a compensare – secondo le ambizioni dell’Unione Europea – le imposte che la società di Cupertino non avrebbe regolarmente pagato agli Stati UE in cui operava e opera, a causa di un’intesa siglata con Dublino, e utile per sostenere un carico fiscale pressochè irrisorio non solamente nei confronti della pressione fiscale media dell’UE, quanto anche nei confronti della già “scontata” pressione fiscale che avrebbe subito in Irlanda.
Ma cosa è accaduto realmente? Cerchiamo di spiegarlo in maniera semplice, svelando alcuni retroscena di una vicenda che sembra essere ben lungi dall’esaurirsi.
Cosa ha combinato Apple, in breve
Senza dilungarci in tecnicismi, possiamo ricordare come Apple (e non solo lei) abbia avuto l’abitudine di fatturare i propri ricavi come servizi erogati nei confronti di una propria società irlandese, pagando dunque le tasse a Dublino e non, ad esempio, in Italia. Una sorta di “esterovestizione” che è stata al centro di una lunga serie di critiche e di attenzioni da parte delle autorità fiscali nazionali, e che – per aspetti collegati – è poi salita sulle scrivanie di Bruxelles e, più precisamente, in quella del commissario alla concorrenza, Margrethe Vestager.
La reazione degli Stati Uniti
Pronta è stata la reazione degli Stati Uniti, che già nelle scorse settimane avevano sostanzialmente cercato di influenzare la decisione comunitaria lasciando intendere – e nemmeno troppo velatamente – che un’eventuale sanzione comminata ad Apple avrebbe potuto disaffezionare altre società statunitensi dal porre in essere operazioni di investimento sull’Europa.
Cosa c’è dietro
In realtà, la preoccupazione degli Stati Uniti sembra essere un’altra, e non è certo legata al timore che possano esservi freni agli investimenti intercontinentali (anzi). Gli States sanno infatti molto bene quanto siano “pericolosi”, per le finanze di Washington, i business intrapresi dalle proprie società al di fuori dei confini nazionali: pericolosi poichè, nelle more di una disciplina più “morbida”, le grandi corporate a stelle e strisce sono pressochè disinteressate a dirigere i propri fatturati, margini e utili europei in madre patria, a causa dell’elevata tassazione che subirebbero nel ritorno in sede USA.
In aggiunta a quanto sopra, può essere utile ricordare come, in realtà, la storia recente non sembra supportare i timori statunitensi: è ancora negli occhi la maxi multa ricevuta da Microsoft (all’epoca, il commissario alla concorrenza era ancora Mario Monti), che non generò tuttavia una regressione degli investimenti statunitensi di alta tecnologia all’interno dei confini comunitari.
Cosa accadrà ora
La vicenda, come sopra anticipato, non sembra essere finita qui. Cominciamo con il ricordare, infatti, che Bruxelles non ha competenze sul fisco nazionale. Il che significa, in altri termini, che le modalità di un potenziale recupero, e l’azione retroattiva, dipenderà dalle singole legislazioni. In secondo luogo, bisogna ricordare come l’Irlanda, sulla base delle regole comunitaria, abbia ora fino a 4 mesi di tempo per poter presentare a Bruxelles un piano di recupero dei 13 miliardi di euro contestati dall’Unione Europea, che potrebbero però essere prorogati – anche in misura significativa – nel caso in cui nel contesto dovessero subentrare altri player internazionale (sia sufficiente pensare che in Irlanda venivano contabilizzati anche dei profitti extra europei, e che dunque anche Paesi non UE potrebbero intervenire).
Anche alla luce di quanto sopra, non è ancora chiaro a chi finirebbero i 13 miliardi di euro di imposte recuperate. L’Unione Europea dovrebbe infatti metterli a disposizione dei Paesi in cui opera Apple (Italia compresa), che quindi andrebbero a spartirsi questa gradita torta… ma sarà così?